In una terra come l’India i colori, vividi, densi, sembrano amplificati. I rossi delle vesti dei monaci sono più rossi, i blu del cielo sono più profondi. Le spezie di cui è intrisa l’aria sembrano farsi sentire anche dagli altri sensi. La vista sopperisce all’olfatto che non può essere soddisfatto, in questi scatti che odorano delle strade bagnate dagli acquazzoni appena smessi, dei cibi cotti nei mercati imbevuti di un’umanità variopinta, del crogiolo che è il Gange, letto di pire ardenti, scenario di immersioni rituali, fogna a cielo aperto, il placido specchio sul quale scorre la vita da secoli.
L’impressione è di guardare all’interno di quelle pozze scure, profondissime, che sono gli occhi degli indiani. Occhi che inghiottono. Che racchiudono il sorriso disarmante che si apre inaspettatamente su volti pieni di dignità, nonostante la casta, nonostante la povertà, nonostante le avversità della vita.
“Non è che un viaggio”.
Ma un viaggio è un viaggio finché lo si compie.
Poi diventa un bagaglio, che ci si porta dentro.
L’impressione è di guardare all’interno di quelle pozze scure, profondissime, che sono gli occhi degli indiani. Occhi che inghiottono. Che racchiudono il sorriso disarmante che si apre inaspettatamente su volti pieni di dignità, nonostante la casta, nonostante la povertà, nonostante le avversità della vita.
“Non è che un viaggio”.
Ma un viaggio è un viaggio finché lo si compie.
Poi diventa un bagaglio, che ci si porta dentro.